«Ha freddo?» chiese il medico. «A volte soffia una corrente dalle sale di attesa».
Carlotta scosse appena il capo. Si voltò. La porta era ancora chiusa. Non c'era nessun altro nella stanza. Si rivolse a Sneidermann. Si chiedeva dove fosse il medico. Invece quel ragazzo stava sorridendo, in modo composto e formale.
«Ha già incontrato uno psichiatra?».
«No».
Il fatto che rispondesse lo rilassò. Si schiarì la gola. Non era sicuro di come dover procedere. Spostò la sedia da dietro la scrivania, per accostarsi a lei.
«Come preferisce essere chiamata?» chiese.
«Car... Carlotta».
«Carlotta. Bene. Molto bene».
Improvvisamente da fuori giunse uno strepito. Dalla sala di attesa si sentivano delle voci. C'era qualcuno. Erano infermieri? Lei guardò la porta.
«Carlotta», disse il medico.
Qualcuno la stava chiamando. Si voltò. Chi era quel ragazzo in giacca bianca? Come poteva conoscerla?
«Ciò che dobbiamo fare è parlare. Mi deve dire che cosa sta succedendo dentro di lei, di che cosa ha paura. Questa è la maniera per individuare il problema».
Carlotta lo guardò in modo strano. Si morse le labbra, pensando ad altro. Poi qualcosa la spaventò, perché ruotò sulla sedia, guardando verso la finestra.
«Dove si trova ora?».
«Nella clinica».
«Sì. Molto bene. Perché ci è venuta?».
Carlotta tornò lentamente a voltarsi. Il corpo le pesava. Era tutta un dolore per l'incidente, tesa dalla paura e col viso ammaccato. Le dita erano rigide, bianche e fredde.
«Perché erano tutti intorno a me», dichiarò disperata.
«Chi?».
«Nell'auto».
Sneidermann annuì, ma lei non vide il gesto. Tutto il suo interesse era concentrato sulle dita. Le si serravano in grembo, si intrecciavano e si aprivano continuamente.
«Può dirmi qualche cosa dell'incidente?».
Aprì le dita. Si raddrizzò sulla sedia. Davanti a lei c'era un giovanotto in giacca bianca, chino e sollecito. Ne studiò il volto. Quadrato, intenso, liscio. Più giovane di lei.
«Carlotta?».
«Che cosa?».
«Può raccontarmi che cosa è accaduto in auto?».
Lentamente, molto lentamente, come acqua che coprisse della terra gelata, i suoi occhi si appannarono. Le narici si allargarono. Se avesse pianto, si sarebbe rilassata. Invece si limitò a scuotere il capo.
«È difficile raccontarmi che cosa è accaduto?».
Annuì.
«D'accordo, Carlotta».
Le sfiorò la mente il pensiero che ormai era al sicuro. Perché? Perché la porta era chiusa. Perché c'era tranquillità. Lì era diverso. Il medico l'affrontò, incoraggiante, professionale, amichevole.
Il dito di Sneidermann, che si muoveva lentamente lungo una screpolatura del ripiano della scrivania, era la sola indicazione del disagio di lui. Poi si riprese. Stava completamente immobile e il viso era una maschera di impenetrabile competenza. Tuttavia i suoi pensieri turbinavano mentre l'osservava.
Carlotta si guardò il grembo. La testa aveva la pesantezza di chi non ha dormito. Si sentì intrappolata. Non era in grado di dire al medico che cosa fosse accaduto, e non osava uscire.
«In auto con lei c'era qualcuno?».
«No... in un primo tempo...».
«Ma dopo?».
Carlotta annuì. Quando lo guardò negli occhi, lui sorrise. Un sorriso contenuto, pratico. Non aveva fiducia in quel dottore. Si era immaginata qualcuno completamente diverso. Era come parlare con Billy.
«Dopo un poco erano in macchina anche loro?» chiese.
«Sì».
«Hanno parlato con lei?».
«Sì».
«Può riferirmi che cosa le hanno detto?».
Lei scosse il capo.
«È difficile?».
«Sì».
«D'accordo».
Carlotta sembrò rilassarsi. Almeno il corpo non era più teso. Cominciava a rendersi conto che non era una conversazione normale. Il dottore non rivelava mai che dosa volesse scoprire. La manipolava con le parole.
«Forse le voci venivano dalla radio».
«No. La radio era spenta. Erano intorno a me».
«Capisco».
Lei trasse qualche cosa di stazzonato dalla borsetta. Si sentiva umiliata. Aveva paura a guardare Sneidermann.
«Volevano uccidermi», sussurrò infine.
«Ma non ci sono riusciti. Dobbiamo essere sicuri che non ritornino».
«Sì».
«Molto bene».
Per la prima volta, Carlotta avvertì un contatto con la figura in bianco. Dietro la maschera, la posa, qualcosa aveva stabilito il contatto. Pareva che a lui importasse. Lo guardò più attentamente. Era reale. I suoi occhi grigi la osservavano con interesse.
«È la prima volta che questo accade?».
«No. Prima è stato diverso».
La vena del collo le palpitò. Strapazzò il tessuto riducendolo ad una pallina minuscola. Ansimava.
Sneidermann guardò il viso grazioso e gli occhi scuri e spaventati. Prima lampeggiavano per un fuoco cupo, per la paura e l'ostilità ed ora parevano trasformati in pozzi profondi, con dentro la sua miseria privata.
«Mi può raccontare che cosa è successo quella prima volta?».
«Non è qualcosa di cui mi piaccia parlare».
«Lo trova difficile?».
«Sì».
«Ma questo è lo studio di un medico. Qui non ci sono segreti».
Carlotta espirò. Loro stanno ascoltando, pensò. Mi strapperanno gli abiti e mi toccheranno. Ormai era completamente sola. Lentamente, si voltò verso il dottore.
«Sono stata violentata», disse, con un filo di voce.
Gli occhi le si appannarono e divennero febbrili. Sollevò il viso verso Sneidermann. Lui sembrava una morbida nube bianca.
«Sono stata violentata», ripeté, non sapendo se avesse udito.
«In casa sua?» chiese lui gentilmente.
Annuì, sorpresa che come unica reazione le facesse quella domanda. Lo guardò attentamente. Dietro la sua maschera non appariva cambiato. Di nuovo in lei si fece strada l'idea che non fosse una conversazione normale.
«Capisco», disse il medico. Ora la stava studiando.
Lei si morse un labbro. Cercò di non piangere. Era inutile. Il volto si contorse in una smorfia. Come un torrente nero tutto rifluì: il terrore, la repulsione, l'umiliazione. Cercò di coprirsi il viso con le mani. Avrebbe preferito che il medico non la vedesse, ma non poteva impedirlo.
«Era così repellente», pianse. «Così brutto!».
Tirò il fiato quasi masticando l'aria. Era immersa nella laidezza. La sentiva, la odorava, era ovunque.
«Sono così sporca», dichiarò.
Si passò inutilmente il tessuto spiegazzato sugli occhi. Era rannicchiata sulla sedia, piangendo disperatamente. La compassione strinse il cuore di Sneidermann. La signora era scomparsa, la piccola donna che era entrata. Era rimasta una ragazza senza più decoro.
Il pianto cessò. A poco a poco. L'orologio ronzò sulla parete. Sneidermann aspettava all'angolo della scrivania, nella stessa posizione di prima. Il silenzio crescente fluiva intorno a loro, unendoli.
«Voglio solo morire», mormorò debolmente.
Sneidermann aprì la bocca, poi la richiuse. Decise di attendere ancora un poco. Si congratulò con se stesso per aver mantenuto la calma così a lungo.
«Ha chiamato la polizia?».
«Come potevo? Non c'era nessuno nella stanza».
Sneidermann fu colto di sorpresa. Per un istante, la sua maschera cadde. La guardò, dubitando di non aver capito. Si batté il dito sulla bocca e si appoggiò lentamente all'indietro. Come meglio poteva, adottò una volta ancora la maschera del medico.
«Mi può raccontare che cosa è accaduto?».
«Sono stata violentata. Che c'è altro da aggiungere?».
Lui si schiarì leggermente la voce. Le sopracciglia erano aggrottate per la concentrazione. Un migliaio di possibilità gli turbinarono davanti. Doveva procedere coi piedi di piombo.
«Era sola nella camera?».
«Sì».
«È stata violentata da chi?».
«Non... non lo so». Dopo una lunga pausa, proseguì: «Lì non c'era nessuno».
«Mi dica, Carlotta, quando dice: "violentata", che cosa intende?».
«Violentata significa violentata».
«Può essere più precisa?».
«Che cosa significa, precisa? Tutti sanno che cosa è violentare».
«A volte la gente usa questa parola in senso metaforico. Sono stato violentato in un contratto d'affari, o qualche cosa di analogo».
«Ebbene, non è quello che intendo io».
Lui non polemizzò. Voleva che lei capisse che era dalla sua parte.
«Mi può dire come è accaduto?» chiese gentilmente. «È certamente difficile, ma devo sapere».
Carlotta batté in ritirata. La voce si abbassò, perse la sua sonorità. Divenne fredda. Si fece impersonale parlando di sé.
«Stavo pettinandomi», esordì, «davanti allo specchio Al buio, credo...».
«Sì».
«E lui mi afferrò».
«Chi l'afferrò?».
«Non lo so».
«Poi che cosa è accaduto?».
«Che cosa è accaduto?» ripeté amara. «Che cosa penso che sia accaduto? Credevo di morire. Mi stava soffocando».
«Le toglieva il respiro?».
«No. Il cuscino. L'aveva messo sulla mia faccia. Non potevo respirare».
«Ha tentato di resistere?».
«Ho tentato. Ma lui era troppo forte».
«E l'ha presa con la forza?».
«Sì. Gliel'ho detto».
«Completamente?».
«Sì».
«Poi cosa è accaduto?».
Carlotta lo guardò furiosa.
«Che cosa è accaduto?» disse. «Che cosa è accaduto? Dopo avermi usata sessualmente è sparito».
«È corso via?».
«No. È... così... andato».
«Fuori dalla porta?».
«No. La porta era chiusa. Un minuto prima era su di me e un minuto dopo era sparito. Poi è entrato mio figlio».
Sneidermann annuì distrattamente. Meditò un attimo. Poi si rivolse di nuovo a Carlotta.
«Suo figlio... ha visto qualcuno?».
«Soltanto me. È arrivato in camera. Io stavo urlando».
«E poi?».
«Noi... anche le bambine... siamo rimasti nel soggiorno. Io ero terrorizzata».
«Aveva paura che lui fosse ancora nella casa?».
«No. Era andato via».
La guardò in silenzio. Carlotta intuì che non sapeva che pesci pigliare.
«Mi dica», disse lentamente il medico. «Che cosa la fa ritenere che non si trattasse di un vero uomo?».
«È... come dire, evaporato. Quando Billy ha acceso la luce».
«Può darsi che sia saltato dalla finestra».
«No. Le finestre erano chiuse. È proprio sparito».
«Tuttavia, lei l'ha sentito in sé?».
«Senza alcun dubbio».
«Con gli attributi di un uomo?».
«Di un grosso uomo».
«Ha provato dolore?».
«Sì. Naturalmente».
«Va bene. E poi?»
«Per quella notte basta. Ma quella seguente...».
«È accaduta la stessa cosa?».
«Questa volta da dietro».
Sneidermann si sfregò la fronte. Appariva ancora più giovane di quando era entrato. Carlotta pensò che doveva essere molto intelligente per essere già medico alla sua età.
«Suo figlio che cosa ha pensato?».
«È entrato con un vicino. Hanno pensato che fosse un'allucinazione».
«Perché hanno pensato questo?».
«Perché urlavo e lì non c'era nessuno».
«Non ha mai preso droghe?».
«Mai».
«Va bene. Lei che cosa ne pensa?».
«Io... non sono sicura. So che ero dolorante. Dentro mi sentivo massacrata. Su questo non posso equivocare. L'ho fiutato tutto intorno a me...».
«Ha sentito il suo odore?».
«Sì. Era puzzolente».
«Capisco».
«Non sono sicura se ha... se ha...».
«Eiaculato».
«Sì... Credo di sì. Ma quando la luce si è accesa è come se mi stessi svegliando. Come se uscissi dal buio. E nessuno era spaventato. Loro non hanno mai pensato che lì ci fosse qualcuno».
Sneidermann annuì. Sembrava aver trovato una presa su Carlotta. La studiò di nuovo: ne osservò la mimica facciale, il linguaggio del corpo, il tono della voce. Voleva una conferma a quanto stava pensando.
«Ha detto che è accaduto una terza volta».
«Non esattamente. L'ho sentito arrivare. Ho avvertito il suo odore da lontano. Sono scappata dalla stanza».
«E poi?».
«Ho preso i bambini e sono scappata, il più velocemente possibile. Siamo andati a casa di un'amica».
«E allora?».
Carlotta si strinse nelle spalle. «Non è accaduto nulla. Sono rimasta con Cindy una settimana. Mi sono sentita meglio. Tutti noi. Però non potevo rimanere lì per sempre. Sono ritornata a casa coi bambini. Ieri sera Cindy è rimasta con me. Tutto andava bene. Mi sono svegliata, abbiamo fatto colazione e poi sono salita in auto. Ero diretta alla mia scuola per segretarie a West Los Angeles».
«È stato quando ha sentito le voci nell'auto».
Lei annuì. Sembrava rilassata. Soltanto gli occhi, come quelli di un coniglio, cercavano di tanto in tanto quelli del medico per trovarvi sicurezza.
«Così, lei che cosa ne pensa?» chiese. «Sia onesto. Mi dica».
Cercò una sigaretta. Mentre l'accendeva le dita tremavano. Sneidermann attese che avesse finito. Doveva conservarsene la fiducia. Senza mentire.
«Ebbene, Carlotta», cominciò. «Naturalmente, è una faccenda molto seria».
«Ritiene che sia pazza?».
«Pazza? Significa cose diverse a seconda delle persone».
Le sorrise. Tuttavia Carlotta si accorse che non gliene importava nulla. Era ancora professionale e riusciva a nascondere i suoi sentimenti. Non si rilassava mai.
«Ha qualcuno che può stare con lei?» chiese.
«Mio figlio, Billy».
«Quanti anni ha?».
«Quindici».
«E la sua amica Cindy?».
«Non questa sera. Può darsi fra qualche giorno».
«Vorrei che lei stesse sempre con qualcuno. Non voglio che rimanga sola».
«Va bene».
«Poi, dobbiamo eseguire alcuni esami medici. Qualche test psicologico. Non sono dannosi».
«Adesso?».
«Possiamo farlo domani».
«Devo frequentare la scuola per segretarie. Sono assistita e prendono nota delle assenze».
«Parliamo all'infermiera all'ingresso. Solitamente otteniamo qualche cosa dall'assistenza sociale».
Carlotta spense la sigaretta.
«Allora non c'è nulla che lei possa fare?».
«No finché non conosco esattamente in che cosa consiste il problema. Ho una mia idea, ma ho bisogno di elementi per confermarla».
«Nel frattempo sarò morta».
«No. Non credo».
«Oggi hanno tentato di farmi fuori».
«Ritengo che se starà con qualcuno le cose andranno meglio».
Lei si liberò la fronte dai capelli. Echi di voci lontane le arrivarono dalla porta.
«Non so che cosa fare», disse, con semplicità.
«Credo che abbia fatto la cosa migliore venendo alla clinica».
«Lo crede?».
«Senza dubbio. È il primo passo. Ed il più duro».
Cadde un silenzio inquietante. Attesero un momento. Carlotta si alzò, raddrizzandosi la gonna. Si avviarono verso la porta.
Quando questa si aprì, apparve una ragnatela di corridoi lustri ed allegri. Carlotta non rammentava di averli visti prima. A sinistra c'era la sala di accettazione. Sneidermann si chinò sulla scrivania, parlando all'infermiera. Carlotta non ricordava neppure di aver visto quella sala.
Lui ritornò, camminando sulla moquette color arancio. Improvvisamente sembrò fosse l'unico volto familiare nell'intero mondo. «Ecco una carta», disse. «Ha il numero della clinica. Sapranno trovarmi se avrà bisogno di me. In qualunque momento del giorno».
Lei mise il foglio in borsetta. Le sue maniere erano di una giovane signora ben educata. Tuttavia era assistita. La cosa lo incuriosiva.
«Grazie, dottore», disse lei sottovoce.
«Sneidermann», aggiunse lui. «Me lo lasci scrivere lì sopra».
Poi l'osservò uscire e farsi strada incerta fra i corridoi con passatoie colorate. Disparve. Sneidermann finalmente respirò. Era esausto.
«È rimasto dentro a lungo, Gary», commentò l'infermiera.
«Che cosa? Oh! Senta, è sicura che non sia mai stata da un altro psichiatra?».
«È quanto ha scritto».
«Allora niente droghe?».
«Se ci si crede?!».
Versò del caffè in un bicchiere. Stava ancora pensando al caso Carlotta.
«Vado in biblioteca», dichiarò. «Devo prendere degli appunti».
Percorse svelto il corridoio, bevendo il caffè. Sotto il braccio teneva una cartelletta nera, ma ancora vuota. I suoi passi rimbombarono sul pavimento della clinica.
Sneidermann accese una sigaretta, esalò una nube di fumo e si tolse la giacca. Arrotolò le maniche, rivelando degli avambracci muscolosi. Ricordava perfettamente tutto. Poteva risuscitare a volontà l'intero andamento del colloquio. Lo riassunse infilando il foglio nella cartelletta nera, sulla quale aveva scritto il nome della paziente.
Ad un tavolo più lontano un altro medico aveva consultato parecchi grossi volumi, completamente assorto così come lo era stato Sneidermann.
Si trovavano in una vasta, vecchia biblioteca, col pavimento a mattonelle, porte intagliate e scale che portavano a ballatoi. C'era un silenzio assoluto. A quell'ora inoltrata della sera la clinica era quasi deserta. Sneidermann si alzò, posò il piede sulla sedia e leggermente sporto in avanti rilesse quanto aveva scritto.
Carlotta aveva fatto le mosse di apertura. Non si trattava di una casalinga con una vita di frustrazioni alle spalle. Non era una grassa segretaria, la cui solitudine si traduceva in stati ansiosi. Gli altri casi che aveva affrontati erano stati ben diversi. Quasi non poteva credere a quanto aveva sentito. Voleva tenerlo per sé, lavorarci sopra prima che lo scoprissero altri. Tremava dall'eccitazione.
Prese un volume dallo scaffale e lo portò al tavolo. Allucinazioni visive, tattili, auricolari ed olfattive erano molto rare. Solitamente erano manifestazioni tanto di una psicosi che di una neurosi isterica. Sneidermann era soddisfatto di essere riuscito a calmarla, vincendone l'isterismo sino a stabilire un contatto. L'aveva portata a parlare in modo razionale, una cosa di cui aveva fortemente dubitato quando per la prima volta l'aveva vista, in piedi, perduta e disperata in mezzo al locale.
Sapeva che il lavoro era tagliato su misura per lui. Sapeva che doveva fare ricerche nella letteratura classica per trovare le più minuziose descrizioni di simili allucinazioni multiple. Consultò le sue note. La voce di lei si era fatta piatta quando aveva descritto le aggressioni come se fossero accadute ad un'estranea. Perciò c'era stata dissociazione. Forse si trattava del celebre classico caso di isterismo. Comunque, pensò, il suo ego sembrava integro, con buona sensazione della realtà, una volta portatala ad avere fiducia.
Il suo successivo pensiero fu che si trattasse di psicosi. Le allucinazioni erano state talmente precise, la delusione così totale, che doveva aver perso contatto con la realtà. Ma più ne parlava, più si calmava, più razionale diventava. Decise di attenersi a questa diagnosi finché non fosse stato più informato sul passato. Psicosi e schizofrenia solitamente si rivelano tra i venti ed i venticinque anni.
La curiosità crebbe, rendendolo irrequieto. La violenza fisica di parte contro il tutto era il tentativo di riorganizzare se stessa in una nuova dimensione? Per quale scopo? Perché le accadeva a trentadue anni? Il caso si stendeva davanti ai suoi occhi come un continente misterioso e lui era ansioso di esplorarlo.
Era ormai solo in biblioteca e improvvisamente gli saettò nella mente il pensiero che non avrebbe potuto sperare di più. Curare gli smarriti ed i distorti, in una disciplina scientifica che rispettava profondamente e nelle condizioni migliori. Si ricordò del padre. Un uomo rinsecchito, sconfitto, con le mani che puzzavano di detergente. Capitato lì per grazia di Dio, pensò Sneidermann. In una città straniera, fra stranieri. Si trovò ad occuparsi dei suoi casi per evitare simili pensieri.
Si sfregò gli occhi, chiuse i libri e buttò il bicchiere di carta nel cestino. Volle imporsi di concentrarsi nel caso che doveva affrontare, ma la stanchezza gli confondeva i pensieri, mescolandoli senza logica uno con l'altro. Raccolse la cartella e lasciò la biblioteca.
La solitudine degli psichiatri in servizio è un segreto per tutti coloro che sono lontani da quell'ambiente. L'isolamento, i corridoi vuoti e formali, le stanze anonime, le relazioni puramente professionali e il senso di competizione non abbandonano neppure per un minuto. Mentre camminava per il cortile deserto con le fontane asciutte e gli specchi d'acqua silenziosi, i rumori della città arrivavano lontani e misteriosi nella notte. Si diresse verso il suo alloggio, concentrato sul caso di Carlotta Moran.
Billy si chinò sulle spalle della madre. Le applicò una pezzuola disinfettante sulla pelle. Il collo era deturpato da solchi rossi, come se degli artigli invisibili l'avessero straziata.
«È un miracolo se sei viva», commentò. «La Buick è un rottame».
«Credi di poterla rimettere insieme?».
«Certo. Forse. Con alcune sostituzioni. La ventola si è addirittura polverizzata».
Carlotta sussultò quando lui le toccò le lacerazioni sotto l'orecchio. Attraverso lo specchio scopriva l'affettuosa sollecitudine dipinta sul viso del ragazzo. Alle sue spalle, attraverso la finestra aperta, i lampioni stradali sembravano soli splendenti. Le erbacce erano cresciute alte e gialle e frusciavano per la brezza notturna.
«Quanto costerà?» chiese lei.
«Un paio di centoni».
«Che non abbiamo», brontolò Carlotta.
Le bambine stavano a guardare dalla porta, con gli occhi spalancati per la meraviglia.
«Ti ha fatto male il dottore?» chiese Julie.
«No, tesoro, no. Per niente. La mamma ha soltanto parlato».
«Ci andrai di nuovo?» chiese Billy.
«Domani. Dopo la scuola».
Fece cenno al figlio di smettere e si alzò.
«Ascoltate, bambini», disse, «sulla scrivania c'è un foglio. Vi è scritto il numero della clinica. Se dovesse accadere qualcosa, telefonate. D'accordo? Si chiama...» consultò il foglio, «Sneidermann». Kim rise a quel nome.
Dopo un'ora i figli erano a letto. Carlotta dormì sul divano. Billy aveva segato un'asse e l'aveva posta sotto i cuscini. Sopra ad essi avevano piazzato il vecchio materassino di Julie. Serviva a coprire i bottoni e le gobbe. Anche se non perfettamente, riuscì a dormire. Comunque, non accadde nulla.
Trascorse la prima notte nel mondo strano del malato quando tutte le norme sono stravolte. Il medico l'aveva confermato. L'ansia era una nube oscura che le si gonfiava intorno, finché scordò come fosse la vita senza di essa.
«Billy», chiamò sottovoce.
Era mattina. Il ragazzo sedeva sul letto e il sole illuminava le lenzuola spiegazzate.
«Cosa?».
«Se chiama Jerry, per carità, non raccontargli nulla. Hai capito? Assicurati che anche le bambine lo facciano. È tutto ciò che mi serve».
«Vuoi dire che sta per ritornare?».
Billy si raddrizzò, completamente sveglio. L'ostilità, confusa ma inequivocabile, era palese in lui. Si appoggiò alla testiera del letto, con le braccia penzoloni. Il suo bel viso era quello di un uomo, mortalmente serio, e le spalle robuste erano spinte indietro.
Carlotta fece un passo verso di lui. La voce era dolce.
«Bill, lo so come ti senti. Ma cerca di capire. Jerry mi piace. E sta tentando di piacere anche a te. Gli devi qualche cosa in cambio. Inoltre, non ha importanza che cosa tu pensi di lui. È mio amico. Capisci che cosa intendo dire? Stiamo bene insieme. Può darsi per sempre. È opportuno che tu ci pensi sopra. Perché potrebbe proprio anche essere veramente per sempre. Fin quando vivrai qui, dovrai adattarti alla situazione. Ne convieni?».
«Stai sbagliando, mamma».
«Lasciamo stare questo fatto. Se è un mio errore. Lascio a te commettere i tuoi».
Billy prese una camicia a scacchi dalla sedia e si sedette sull'orlo del letto per mettersela. Evitò lo sguardo della madre.
«Vuoi che venga con te?» chiese.
«Grazie, Bill, vado soltanto a scuola».
«Sei sicura?».
«Sicura. Che cosa può succedere? Prendo l'autobus».
«Va bene».
Si alzò, prese i pantaloni dalla stessa sedia, li infilò ed allacciò la cintura.
«Posso avere una macchina. Quella di Jed. Telefona se vuoi un passaggio fino a casa».
«D'accordo. Vedremo come mi sentirò».
La seguì fino all'ingresso. Lei teneva in mano il suo quaderno.
«Ciao, mamma».
Lei gli si appoggiò per un momento. Poi camminò nella luce del sole. Alla fine della Kentner Street l'autobus svoltò pigramente l'angolo. Mentre pagava il biglietto vide il figlio in piedi nel riquadro della porta. Poi lo scorse mentre si voltava sconsolato ed entrava in casa.
«Ha dormito bene?».
«Abbastanza».
«In camera?».
«Sul divano. Nel soggiorno».
Sneidermann annuì. Sembrava di gran lunga più rilassata e che si affidasse completamente. Questo lo rendeva molto soddisfatto. Mirava a mettersi in moto il più rapidamente possibile. C'era il piccolo varco del giorno precedente, e lui tentò di allargarlo.
«Niente incubi?» chiese.
«No».
Sorrise. Era veramente incoraggiato. Lei lo capì immediatamente e decise di lasciarlo fare come voleva.
«È stata una buona idea dormire sul divano».
Pareva che il dottore rammentasse ogni particolare di quanto si erano detti il giorno prima.
«È qui sola?» chiese ancora.
«Sì».
«Avrei preferito che qualcuno venisse con lei. Suo figlio, per esempio».
«È a scuola sino a metà pomeriggio».
«Ebbene, potremmo incontrarci ad un'ora diversa. Che cosa ne dice delle quattro? Andrebbe bene per tutti e due?».
«E per lei?».
«Cambierei i miei orari. Lo posso fare».
Carlotta annuì. Esitava a concedergli tutta la fiducia. Avrebbe dovuto essere di venti anni più vecchio.
«Allora possiamo vederci alle quattro», concluse lui.
«Domani?».
«Tutti i giorni».
«È indispensabile?».
«Sì».
La prospettiva di un trattamento così impegnativo era lontano da quanto si aspettasse.
Lui mosse delle carte posate sulla scrivania. Non rivelava neanche un poco della tensione del giorno prima.
«Ieri le ho parlato di qualche esame. Sono un fatto consueto. La maggior parte di essi li ha probabilmente già affrontati altre volte. Sangue, urina e qualche tests psicologico. Uno specialista le mostrerà dei disegni. Lei basandosi su di essi inventerà una storia. Così così. Nulla che faccia male. Niente sorprese. Si sente di farlo ora?».
«Suppongo di sì, se lei crede».
«Bene. Andiamo».
Si alzò svelto. Carlotta era un tantino spaventata per la velocità con cui le cose stavano procedendo. Si tirò in piedi lentamente, raccogliendo la borsetta dal pavimento.
«L'accompagnerò al laboratorio», annunciò. «È piuttosto grande e potrebbe perdersi».
Uscirono ed entrarono nel rumoroso dedalo dei corridoi, con Sneidermann che salutava a cenni medici ed infermiere. Attraversarono parecchi corridoi, parecchi laboratori affollati di tecnici. Lui era alto e camminava svelto con le lunghe gambe. Era difficile tenergli dietro. Voltarono un angolo, si fermarono davanti agli ascensori ed aspettarono con un gruppo di persone.
«Lei non è un vero dottore, vero?» chiese Carlotta.
Sneidermann arrossì e rise.
«Che cosa glielo fa supporre? Sono un interno, e quindi un dottore. Ma ho un primario».
«Ha un'aria così giovane».
«Ebbene, non lo sono poi tanto».
L'ascensore si aprì, vomitò pazienti e inservienti che consegnavano rifornimenti. Entrarono. Lui premette un bottone. Al piano terreno la condusse attraverso un'altra serie di corridoi superando delle porte girevoli. Accanto alle pareti stavano dei vecchi e delle vecchie che tossivano su delle sedie a rotelle.
«Questa è Mrs. Moran», disse ad un'infermiera dietro uno sportello. «Dell'INP. Voglio un esame completo. Con i moduli arancione, verde e giallo».
L'infermiera ridacchiò.
«Ci sono anche altri colori».
«Mi procuri l'intero arcobaleno».
Questa frugò in parecchie scatole che aveva davanti.
«Si sieda, prego. Ci occuperemo di lei fra un minuto».
Sneidermann ritornò da Carlotta. Gli odori insoliti dei medicinali la rendevano nervosa. Faceva più freddo. Ovunque c'erano quadranti, serbatoi e tubi in rastrelliere. Improvvisamente tutto s'ingrandì nella sua mente. Quel luccicare di metalli, i vetri delle stanze, i malati nel corridoio, la miniaturizzavano.
«Non si impressioni», disse il medico. «So che non è un luogo piacevole. È come un'autorimessa. Lei ha già fatto prima l'esame del sangue, vero? È il massimo del disturbo che si può provare. Non le mentirei certo. Per la maggior parte è noioso. Ci vogliono circa due ore. Cerchi di non addormentarsi».
Lei sorrise nervosamente.
«Mi troverà di sopra quando avrà finito. Se vuole vedermi, si faccia portare all'INP».
«INP?».
«Istituto Neuro-Psicologico. Loro lo sanno».
«Va bene».
Si voltò per andarsene, ma poi si rigirò. Lei era ancora più nervosa. Non voleva vederlo andar via.
«Tornerò e parleremo, se vuole. Sono a sua disposizione. Come si sente. Bene?».
«Sì».
Al laboratorio, malgrado la giovinezza, era sembrato autorevole. Era stata l'infermiera a farne risaltare le qualità infantili. Vederlo civettare aveva disturbato Carlotta.
«Mrs. Moran», chiamò l'infermiera, «vuol entrare per favore?».
Carlotta si rassegnò. Passò in un locale pieno di tubi, cilindri, bottiglie di liquidi densi e sgradevoli. Dei macchinari che funzionavano all'interno di gabbie di acciaio emettevano un suono ronzante. I tecnici muovevano rastrelliere con provette piene di sangue attraverso i banchi. Lei rabbrividì. Si sentiva disumanizzata, un numero della grande macchina medica. Persino la luce era verde e fredda. Tutti apparivano strani. L'infermiera teneva scostata una tenda. Carlotta entrò e si spogliò.
6
2 novembre 1976, ore 17,30
Una pioggerella leggera cadeva sulla casa di Kentner Street. Carlotta non era ancora ritornata dalla clinica. Uccelli scuri cantavano, tenendosi senza sosta su una nota triste, dal folto degli alberi. Le camere erano fredde e davano un senso di vuoto.
Billy era vicino all'acquaio, vagamente consapevole della sua sagoma contro la finestra scura. Da quando la madre si era ammalata, o qualsiasi altra cosa fosse, lui aveva preso a rigovernare, a vestire le bambine ed a preparare il pranzo. Sapeva che presto o tardi sarebbe stato chiamato a dare di più. Ma per il momento, faceva le sole cose che poteva, piccole cose che avrebbero alleviato il carico della casa.
Non c'era nulla di vergognoso nell'essere malati mentalmente, pensava Billy. Soltanto che non c'erano medicine. Non ci si poteva mettere sotto un microscopio e scoprire le cellule malate.
Si rabbuiò in viso. Pensare ai microscopi ed alle cellule gli fece ricordare la scuola, la biologia e tutte le materie che detestava. Le aule puzzolenti, come celle di prigione. Gli insegnanti stravaganti, che si divertivano a mettere in imbarazzo davanti a tutti. Esseri noiosi di mente ristretta, con vite insignificanti e nessuna speranza per qualche cosa di meglio. Come li odiava!
Da una settimana non frequentava la scuola, ma questo non lo preoccupava. Non gli importava niente di quello che potevano dirgli o fargli. In ogni modo, che cosa poteva succedergli? Aveva quasi sedici anni e presto sarebbe stato in grado di lasciarli definitivamente e legittimamente.
Eppure, era tormentato dall'ansia. Il momento era cattivo. Soprattutto ora, con la madre malata. Non voleva darle altri dispiaceri. Ma dopotutto, lei che cosa sapeva realmente di lui? Di quali fossero i suoi pensieri ed i suoi sogni? Che cosa conoscono veramente i genitori? Tutto ciò che sapeva era di trovarsi di fronte ad un fenomeno in fatto di macchine. Con Cindy ci scherzava anche sopra. Ebbene, era ben più che le chiavi inglesi e il grasso a farlo muovere. Non aveva intenzione di finire in una buca. Aveva un traguardo. Un grosso traguardo. E le auto erano giusto un minuscolo trampolino verso di esso.
Gli occhi di Billy si incantarono. Le mani rimasero immobili nell'acqua saponata mentre considerava il futuro, persino più interessante e migliore di quello dello zio Stu di Jed. L'esempio di un vero successo. Non ancora quarantenne e unico proprietario della più importante rivendita di macchine usate di Carson. Sei acri con un fantastico movimento di affari. A volte più di cento automobili in una sola settimana. Lo zio Stu s'era fatto una fortuna rimanendo semplicemente seduto dietro la scrivania, comprando e vendendo. Sì, a quello Billy puntava, ad avere un giorno un proprio commercio di auto. Ma non a Carson. A Brentwood, a Westwood, forse persino a Beverly Hills.
Guardò fuori della finestra. Fra la pioggerella che rigava i vetri scorse l'autobus girare l'angolo. Non ne scese nessuno. Guardò l'orologio. Erano quasi le sei. Che cosa la stava trattenendo? Sperava che non le fosse successo nulla. Tipo uno dei suoi incantesimi e visioni di cose. Che terribile essere affetti da quella malattia. Billy sapeva da storie che aveva sentito come cambiasse la personalità della gente. Persone dolci e tenere che erano divenute scontrose, silenziose e perennemente imbronciate, perse nelle ombre della casa, che non uscivano mai, che si mettevano persino a puzzare. Quello era la cosa orribile: non la malattia in sé, ma i cambiamenti che portava alle persone. Si diveniva indifferenti e si poteva arrivare ad odiarle; si poteva desiderare di stare lontano dalle persone che un tempo si amavano.
Billy respinse con fermezza il pensiero. Non avrebbe mai potuto lasciare sua madre, comunque andassero le cose.
Il volto gli si indurì quando i pensieri si fermarono su Jerry. Fottutissimo stupido. Tentava di comportarsi come se fosse qualcuno di grande. Girando per il paese come un pezzo grosso di Vegas, per tornare per una notte ad usare la madre come una, già, proprio, come una prostituta. Perché glielo permetteva? Che cosa diavolo vedeva in lui? Cos'era questa grande attrazione? Maledizione...
Un piatto si fracassò sul linoleum.
«Merda!».
Billy si chinò a raccogliere i cocci. Erano taglienti e freddi. Li infilò in un sacchetto e lo lasciò cadere nel portaimmondizie vicino al fornello. Cercò altri cocci sul pavimento.
Un secondo piatto si ruppe.
«Cribbio!».
Che cosa diavolo succedeva? In gran fretta accatastò i pezzi in un giornale. Erano ghiacciati. I cocci sembravano saltellare in giro, quasi senza peso. Li lasciò cadere nel secchio. Si sentì un acciottolio, come se rimbalzassero. Ci mise sopra il coperchio.
«Billy!».
Si volse. Julie lo guardava dal soggiorno.
«Che c'è?».
«Guardami!».
La sorella camminò sino alla soglia. Aveva occhi straniti da folletto. I capelli erano ritti.
«Perché diavolo l'hai fatto?» chiese Billy. «Vai a pettinarti».
«L'ho fatto. Restano così da soli».
Billy la fissò disgustato.
«Sei stata tu. Adesso vai a pettinarti. Non sono dell'umore adatto per giocare e sicuro come l'oro che neppure la mamma lo sarà».
«Non sono stata io...»
«Julie!».
Questa lo fissò con un'espressione offesa. Poi lo guardò in tralice e gli puntò il dito contro.
«Sta succedendo anche a te», ridacchiò.
«Maledetta pioggia», mormorò lui, lisciandosi i capelli.
«Fanno ancora ridere».
Afferrò Julie per il braccio, la trascinò all'acquaio e bagnò il pettine, passandoglielo vigorosamente fra i capelli.
«Ahi, Billy!».
La porta d'ingresso si aprì e Carlotta entrò. Aveva l'aria stanca, il corpo curvo e l'acqua le gocciolava dal soprabito e dal viso. Le occhiaie sembravano colme di ombre. Cercò di sorridere, ma non ne fu capace.
«Mi dispiace di essere in ritardo, bambini, il dottore...».
«Non importa, mamma», disse Billy. «Ho comprato dei ravioli surgelati e anche del latte».
Carlotta annuì ringraziando stancamente. Si tolse il soprabito e sedette pesantemente al tavolo di cucina.
«Come stai, bambolina», disse a Julie.
«Bene», rispose questa, cogliendo lo sguardo ammonitore del fratello. «Billy ed io stavamo giocando».
«Bene, bene», disse la madre, distratta.
Ricordava una processione infinita di infermiere, di medici e di tecnici che le camminavano intorno, mentre giaceva in attesa su un freddo lettino coperto di pelle e per ragioni a lei incomprensibili. Era contenta di essere a casa. I figli le davano forza. Ma era esausta ed a malapena capace di concentrarsi sul pasto davanti a lei.
Masticò lentamente, appena conscia del cibo. L'oscurità fuori della finestra sembrava aumentare. Le bambine facevano croccare il sedano fresco, un regalo proveniente dall'orto di Mrs. Greenspan. Carlotta si chinò su loro per calmarle, poi si raggelò.
«Hai sentito?» sussurrò.
La forchetta di Billy si arrestò a mezz'aria. Ascoltò intento.
«No. Che cosa?».
«Sotto la casa. Sotto il pavimento».
Julie e Kim la guardarono. Si domandavano se fosse un gioco. Compresero subito che non lo era.
«Non ho sentito nulla», dichiarò Billy.
Dalle fondamenta giunse un basso gemito.
«Accidenti, questa sicuramente non è la mia immaginazione», disse Carlotta, con un tono quasi stridulo.
Uscirono. L'acqua gocciolava dai cornicioni, dalla perlinatura della facciata e dai davanzali. Nell'oscurità le gocce di pioggia sembravano schegge iridescenti. L'acqua scorreva turbinosa fra le fondamenta.
Assi marce e funi fradice pendevano dai travetti intrisi; Billy si contorse nello spazio angusto. La sua torcia gettava un fascio di luce fra i tubi ed i blocchi di cemento, scoprendo un intrico di fili di ferro e masse di insetti abbagliati.
«Mamma, qui non c'è niente!».
Spinse spuntoni di legno dove i tubi si congiungevano. Della segatura gli cadde sulla testa. Il sudore gli imperlava gli avambracci. Fece una smorfia quando degli insetti presero a strisciargli lungo le braccia.
«Mi pare venisse da sotto la camera», gridò Carlotta.
Billy si spinse più avanti nel buio. Allontanò mattoni, pezzi di legno e tubi arrugginiti. Si appoggiò ad un supporto. Un gemito cupo, irato, parve scuotere la casa.
«Billy! Va tutto bene?».
«Certo, mamma. Sono i sostegni della camera».
Avanzò curvo, cercando di scoprire dove si univano tubi e supporti. Riempì le fessure di giornali e pezzi di cartone. Poi si appoggiò contro il sostegno. Nessun rumore. Il buio profondo era silenzioso.
Dopo mezz'ora aveva la camicia inzuppata. Il volto era rigato di polvere e ragnatele. Uno strano terriccio gli si era appiccicato ai calzoni, con un odore di qualcosa di ripugnante, come di polvere di metallo. Si districò con difficoltà per uscire, finché raggiunse l'ombrello di Carlotta. La pioggia continuava a cadere con un quieto e monotono ticchettio.
«Che cos'era?» chiese la madre.
«I tubi contro il sostegno. Mi ci sono appoggiato ed il rumore è causato da quello», spiegò Billy.
«Che cosa c'era prima a far rumore?».
Il ragazzo si strinse nelle spalle, togliendosi le ragnatele dai capelli. Il grazioso viso di Carlotta era ammorbidito dalla lontana luce della strada. Lei tolse un pezzo di cartone dalle spalle del figlio. Billy studiò il suo volto, gli occhi e la cupa ombra di essi. Cominciò a rendersi conto della serietà di quello in cui era coinvolta.
«È una vecchia casa, mamma», disse. «Probabilmente si è assestata».
«Sembrava che qualcuno ci si stesse muovendo dentro», rispose nervosamente.
Billy rise.
«Ci puzza», aggiunse. «Forse è un topo morto. Qualcosa che è marcito».
Entrarono. Billy si cambiò e fece una doccia. Tutto sembrò diverso. La casa era cambiata. Non erano più soli.
Carlotta con un bacio diede la buonanotte alle bambine. Vide Billy entrare in camera sua. Non riusciva a cancellare l'impressione che ora le cose fossero diverse. L'atmosfera era più pesante e tesa.
Spense tutte le luci tranne una. La gonna e la camicetta le scivolarono dal corpo. Non era certo un problema. Si sentiva le membra di piombo. Scivolò fra le lenzuola e chiuse gli occhi.
Lentamente si rilassò. Come una droga, la fatica la rendeva sempre più pesante ed i pensieri divennero persino più lenti. I rumori della casa svanirono lentamente. Avvertiva di tanto in tanto soltanto il brontolio dell'impianto di riscaldamento. Delle ombre le folgoravano velocemente la mente. Ombre strane, distorte e nemiche.
Carlotta si lasciò andare ai ricordi. La gente che aveva conosciuta, le cose che aveva fatto presero evidenza, si fecero più nette, più urgenti. Lontano, lungo i corridoi e i cortili vuoti, qualcuno la stava cercando. Ne vide il volto, reso più marcato dalle luci strane. Lui la vide, venne verso di lei, sorridendo... e la chiamò per nome...
«Carlotta!» chiamò Frank Moran. «Ebbene, che cosa ne dici? Non è molto, ma è nostra!».
Ormai erano legalmente sposati. Lei guardò la minuscola stanza, il letto ampio, spinto sotto la finestra, ed il cucinino che si riusciva ad intravedere chinandosi.
«Vieni qui, piccola!» disse. «Festeggiamo!».
«Accidenti, Franklin. Sono le due e mezzo del pome...».
«Ah ah ah ah ah».
La gettò allegramente sul letto. Lei aveva soltanto sedici anni. A volte quelle mani erano violente. Il viso scabro, già segnato, quadrato e duro, gli si faceva estraneo. Quasi la spaventava.
«Oh, tesoro», sospirò lui più tardi. «Sei meravigliosa...».
«Non lo dire».
Lui sogghignò. Il torace gli si gonfiò carezzato dalla luce dorata. In momenti come quello, lei sentiva di amarlo pazzamente. Ne amava la vitalità, la fiducia in se stesso, la forza.
«D'accordo», ridacchiò di nuovo, sculacciandola dolcemente. «Ma è vero. Lo sei».
C'erano due finestre, ambedue rotte. Era estate e vivevano in una costante penombra. Dentro ci si vedeva appena, ma era anche spieiatamente caldo. A Franklin piaceva girare in shorts. Da fuori venivano rumori di martelli, di cannelli ossidrici e di una radio che non taceva mai.
«Ti piace qui, tesoro?» chiese. «Batte Pasadena d'un bel pezzo, vero?».
«Sì. Te l'ho detto».
«Allora perché sei triste?».
«Non sono triste. Soltanto che...»
«Che cosa?».
«Nulla. Soldi. Che cosa faremo per averne?».
«Non preoccuparti», rise lui. «Ti ho trascurato finora?».
«No, ma...».
«È meglio che tu ci creda», disse, con gli occhi sfavillanti.
Carlotta capiva che era meglio non insistere. Quando si sentiva bene, era facile a perdere la calma se qualcuno lo contrastava.
Il gabinetto era dietro un capannone che serviva come deposito a bombole di acetilene. Per arrivarci, Carlotta doveva attraversare cataste e lastre ed inoltre affrontare gli sguardi dei due meccanici. Doveva anche bussare alla parete prima di girare l'angolo, perché sovente usavano il gabinetto senza chiudere la porta.
Poi rimase incinta e la pancia si ingrossò.
«Ehi, figlia di ministro della chiesa», commentò Lloyd, il meccanico col berretto di lana. «È sicura di non essere mai stata baciata?».
«Ha soltanto sedici anni?» chiese il meccanico più basso.
«Di sicuro Franklin si è procurato una micetta fresca», udì dire Carlotta.
Salì svelta le scale. Erano passati tre mesi da quando aveva lasciato Pasadena. In un primo momento era sembrata tutta un'avventura. Però i due meccanici la spaventavano e sembravano trascinare Franklin nel fango che minacciava di travolgere anche lei.
Suo marito era capace di procurare pezzi usati di ricambio di ogni tipo. Poi loro rimettevano in ordine delle auto che vendevano come nuove. Dovevano valutare rapidamente il probabile cliente e calcolare quanti fastidi poteva causare.
Mentre il suo ventre diveniva più grosso, Carlotta rimase in casa sempre di più. La gestazione la confinava a letto per periodi lunghi. Franklin divenne irrequieto. Desiderava ancora la sua ragazza. Non era divertente. Lei non lo voleva fare in nessun altro modo che quello in cui ora non poteva.
«Ehi», insistette lui. «Vieni qui, cocca».
«No. Non posso».
«Perché no?».
«L'ha detto il dottore».
«Che vada a farsi fottere. Non sei incinta».
«Lo sono. Non si vede, ma lo sono».
«Ma che cos'hai? Non sei mai stata così».
«Le cose sono diverse, Franklin...».
«Accidenti se lo sono».
In qualche maniera era un sollievo, dovergli stare lontana. Tuttavia, quando lui si spogliava e lo carezzava la luce dorata che filtrava fra le tapparelle chiuse, non poteva fare a meno di valutarne il corpo. Le gambe lunghe in confronto al torso, le mani larghe e dure, i genitali pieni e pesanti. Amava far scorrere le sue mani sul torace. Amava i mutamenti che provocava in lui.
Ma la gravidanza era dura. Il medico le aveva detto che avrebbe dovuto attendere un paio d'anni. Sentiva che stava per trasformarsi in qualcosa d'altro. A volte non poteva sopportare di essere toccata.
Lentamente l'umore di Franklin si fece sempre più cattivo. Finì che ebbe quasi paura di lui. Le venne in mente che conoscesse altre ragazze. Ma che cosa poteva fare?
Una sera rientrò barcollante.
«Figlia del pastore Dilworth», proclamò. «Vorrei mostrarti qualcosa».
Lei capì immediatamente che era ubriaco. O peggio.
«Sei pieno», gli disse, disgustata.
Lui si spogliò. Era fiero della sua erezione.
«Che cosa ne dici di lui», disse, brandendo lo scettro. «Eh?».
«Stai attento. Riesci a malapena a parlare».
«Vieni qui, cocca. Ti voglio e tu vuoi me...».
«Lasciami sola. Credi che intenda prendere di quella roba quando sono incinta di otto mesi? È questo che credi?».
«Oh, Gesù», esclamò lui, inciampando e sbattendo contro una lampada. Rise al rumore. «Ho sposato una moglie frigida».
Carlotta si appoggiò alla parete. Per la prima volta i sospiri del marito, seduto nudo sul letto e pronto per fare l'amore, la disgustarono. Era grottesco, ripugnante. Improvvisamente desiderò di tornare a casa. Ma non c'era più casa per lei.
«Vieni qui, Carlotta» uggiolò lui.
«No, non posso. Lasciami sola...».
«Gesù», replicò, sdraiandosi di colpo sul pavimento.
Tirò la coperta da letto, avvolgendosela intorno alle spalle.
«Frigida», brontolò. «È frigida, Franklin. Povero Franklin».
A poco a poco si assopì. Lei avvertì la nuova vita agitarsi nel suo ventre. Anche lui parve improvvisamente grottesco. Era intrappolata. La sua vita intera ormai era di colpo senza futuro.
Oltre l'officina c'era una strada polverosa e, ancora più lontano, dell'acqua: un fossato di cemento largo quasi venti metri. Gli argini erano anch'essi di cemento. Vi stagnava al centro un limaccioso velo verde. Era lì che Franklin guadagnava. Il sabato organizzavano delle corse in motocicletta con un premio di cinquanta dollari e lui solitamente vinceva. L'unico inconveniente era la polizia.
Un giorno due agenti vennero a far visita a Lloyd. Era sospettato di trafficare in anfetamina. Avevano un mandato di perquisizione. Lloyd si appoggiò alla morsa, mentre la polizia frugava nei cassetti. Ce n'era una infinità oltre ad armadietti e schedari, per non parlare delle viti, dei bulloni, delle parti di macchine, degli stracci e delle latte.
Carlotta udiva le voci mentre stava sdraiata sul letto.
«Vediamo che cosa c'è di sopra», disse un poliziotto.
«È meglio di no», ribatté Franklin. «Avete il mandato solo per il negozio».
«Ho il mandato per questo indirizzo, figliolo».
Franklin li fronteggiò.
«State fuori dalla mia casa, bastardi!».
Lei udì un agente dire all'altro: «Non voglio far caso a queste parole, che ne dici?».
«Neanch'io. Senti, bullo. Hai intenzione di aprire la porta o dovrò usare la tua testa per farlo?».
Dentro c'era umido, buio e puzza di birra stantia. Indumenti e bottiglie, portaceneri rovesciati e residui di pasti coprivano il pavimento. Dal letto Carlotta vide l'agente cercare di adattarsi al buio.
«Chi è?».
«È mia moglie».
Il poliziotto spalancò la porta col manganello. Sul letto, inzuppata di sudore, rabbrividendo, Carlotta si sedette, appoggiandosi alla testiera.
«Ma è una bambina».
«Che cosa si suppone che ne faccia?».
«Hai abituato anche lei alla mescalina?».
«È incinta».
Il secondo poliziotto entrò nella stanza, strizzando gli occhi. Sorrise a Carlotta, che tentò, senza successo, di sorridere a sua volta.
«Franklin», chiese, «che cosa c'è? Perché c'è la polizia?».
«Niente, signora», intervenne l'agente. «Abbiamo un mandato di perquisizione. Non vogliamo disturbarla».
«Credo che dovremmo portarla all'ospedale, Roy», propose l'altro.
Il secondo si portò più vicino al letto. Le studiò il viso. Gli occhi di lei erano dilatati, la faccia distorta in uno spasmo di dolore.
«Chiama l'ambulanza».
«È mia moglie! Lo avrà qui!».
«Chiudi il becco, ragazzino».
«Va bene, Franklin», intervenne lei debolmente. «Non litigare».
Lo vide imbronciato stretto tra i due. Capì di essere trasportata da qualche parte. Credette di vederlo nell'ambulanza, ma non era sicura di nulla. L'urlo della sirena riempì il mondo intorno a lei.
Franklin teneva il neonato alto sopra la testa. La stanza puzzava di pannolini e di vomito.
«Dio», disse. «Ho fatto questo?».
«Non tutto da solo», osservò Carlotta.
«Ho fatto la parte importante».
La toccò col naso dietro ai collo.
«Stavo solo scherzando».
«Ehi! Che cosa fai? Sto allattando il bambino!».
«Ebbene, ne può usare solo uno, no?».
«Franklin, non crescerai mai?».
Di colpo il sorriso gli si gelò. Capiva ora che i pochi chili di carne che si dimenavano indifesi al petto della moglie si erano messi tra di loro. Per sempre. Lei che era così pronta, così vivace e che aveva scelto un anno prima come qualche cosa di eccezionale. Ora puzzava di neonato. La stanza era squallida. L'incubo di essere intrappolato lo sopraffece.
«Dove vai?» chiese lei.
«Dove non ci sia merda di neonato», rispose dalla porta. «Non figlie di pastori, non piedipiatti, niente di niente».
Sbatté la porta dietro di sé. Lei sapeva dove fosse diretto: anfetamine. Era quello che lo teneva su. Lo odiò, ne odiò gli occhi lampeggianti, i movimenti a scatti, sussultanti, il pesante senso dell'umorismo.
Quando lei era disposta ad accontentarlo lui si faceva rude. Poi ritornava gentile. Voleva che lei si lasciasse andare. Voleva quella bambina che si era coricata con lui sulla spiaggia. Che correva per le strade di Pasadena con lui, allarmando tutti. Mentre vecchi calvi si facevano uscire gli occhi dalla testa per il desiderio. Ma ormai lei si era staccata. Ormai era diversa. Che tentasse pure, ma era tutto finito. Carlotta sapeva solo starsene lì silenziosa a guardare il loro rapporto andare a pezzi.
Franklin divenne un drogato. Il sistema nervoso stava logorandosi. In soli pochi mesi perse venti chili. In certo modo Carlotta rappresentava uno specchio nel quale lui aveva vista riflessa la sua superficialità e questo lo disgustò.
Il denaro si fece scarso. Franklin vinceva sempre meno alle corse per cui si dedicò ad altre attività. Ad esempio cominciò a trafficare in stupefacenti. Si allontanò sempre più da lei, trattenendosi sino a tardi nei bar, bevendo birra e scherzando con le ragazze, mentre ombre ogni giorno più cupe gli scurivano gli occhi. Intanto che l'autunno avanzava e l'aria si faceva fredda, secca e pungente, Carlotta cominciò a desiderare disperatamente di poter evadere.
«Stai rovinandoti», gli urlava. «E allora che cosa faremo?».
«Non ci rovineremo».
«Cresci! Non sei solo ormai!».
Franklin si diresse al frigorifero. Ne prese una lattina di birra.
«Mescoli superalcolici con la birra e ti pescheranno...»
«Maledetto, puzzolente, fottutissimo buco!» urlò lui improvvisamente, con le lacrime agli occhi. «È quello che sei sempre stata».
Lo guardò, con un odio che gli faceva scintillare gli occhi, tremando dalla testa ai piedi. Di colpo lo desiderò morto. Lui le restituì uno sguardo torvo, stravolto e impotente nella sua disperazione.
«Che cosa ti è successo?» urlò, ancora più forte. «Una volta era una cosa bella, una...».
«È tutto finito, Franklin. Non riesci a fartelo entrare in testa? L'epoca dei divertimenti è finita! Billy...».
«Che vada a farsi fottere... vorrei che non fosse mai nato...».
«Vorrei che tu non fossi mai nato! Vorrei che tu...».
Di colpo la stanza si fece tranquilla. Carlotta, in piedi, teneva Billy in braccio e il sole metteva in evidenza le braccia magre di Franklin e la testa quadrata, in un alone dorato. Era una silhouette, un adolescente di venticinque anni. Si era distrutto, nel tentativo di rimanere giovane e nulla dentro gli era maturato. Per quanto Carlotta ne sapeva, era già morto.
«Puzzolente, maledettissimo buco!» urlò.
Improvvisamente fu sconvolto dall'ira. Lanciò una lattina di birra contro la parete inondando entrambi. Fracassò la tapparella. Prese a calci l'unica sedia facendola volare per la stanza, poi di nuovo e di nuovo, finché si spaccò contro la porta.
«Merda... vita di merda», urlò.
Di colpo la stanza ritornò tranquilla. Carlotta teneva sempre Billy in braccio. Franklin si girò lentamente coi muscoli tesi. Puntò il dito contro di lei, fissandola con occhi spaventati e cupi.
«Te la farò pagare», minacciò sottovoce. «Saprai che cosa mi hai fatto».
Andò alla porta. Si fermò e la guardò di nuovo. Sembrava in procinto di piangere.
«Te la farò vedere», ripeté. «Te la farò vedere».
Goffamente uscì e sbatté la porta.
Carlotta sedette piangendo sull'orlo del letto. A quell'età non sapeva che cosa una donna potesse dare ad un uomo, per riempirlo di fiducia e di amore per la vita. Lo apprese più tardi. Ma allora, tenendo Billy in grembo, poteva soltanto odiare Franklin, desiderare che fosse lontano, lontanissimo. La sola cosa per cui pregava era di poter ricominciare di nuovo.
Quella notte lui non rincasò. E neppure la successiva. Il terzo giorno lei s'informò presso i meccanici. Lloyd la guardò in tralice, con gli occhi che ne valutavano la figura sotto la camicetta. Franklin era andato a gareggiare. Per fare qualche cosa che voleva dimostrare a tutti loro. No, Franklin non era equilibrato. Carlotta risalì e chiuse a chiave la porta.
Anche la quarta notte non ritornò. A mezzanotte lei chiamò Richard dalla finestra, lui alzò lo sguardo dal tornio. No, Franklin non aveva telefonato.
Carlotta trascorse la notte tremando. Aveva la inequivocabile sensazione che fosse accaduto qualcosa di terribile. Non riusciva a scacciare il pensiero. Si svegliò tutta un sudore. Ancora nessuno l'aveva chiamata. Nessuna notizia da nessuna pane.
Il quinto giorno, a pomeriggio inoltrato, fu certa che qualche cosa non andava. Richard e Lloyd erano fermi nella strada polverosa, coi volti pallidi e tirati. Di tanto in tanto sollevavano lo sguardo verso l'appartamento. Poi Richard si decise a salire le scale traballanti. Bussò piano. Lei esitò a lungo poi, facendosi strada fra la confusione, aprì la porta.
«Franklin si è ucciso», annunciò brutalmente.
«Che cosa?».
«È morto...».
«Lei è impazzito. Che razza di scherzo è questo?».
«No, è vero. Si è spezzata la schiena...».
Le si diffuse un intorpidimento per tutti gli arti. Pur squallida com'era, la sua vita sembrò precipitare in un abisso ancora più profondo. Vide Richard all'estremità di un tunnel buio, comprendendo a malapena quanto lui stava dicendo.
«Ha rischiato troppo. Non era da lui. Era... stava proprio impazzendo...».
«Richard...».
La sorresse. Capì che stava per svenire. La portò fino alla sedia. Lei scosse il capo, cercando di liberarsi dall'incubo. Ma quando aprì gli occhi, Richard s'inginocchiò davanti a lei, coi capelli dritti e arruffati.
«Continuava a drogarsi!» proclamò a gran voce. «Non avrebbe mai smesso di drogarsi!».
Di colpo si sentì il corpo pesante e, troppo giovane per sapere che cosa fare, si credette perduta. La stanza sembrava cupa, sospesa nel vuoto.
«Oh, Dio mio, Richard, non gridi. Che cosa devo fare?».
Stava in piedi, incerta, guardandosi intorno, al pasticcio che era divenuta la sua vita. Non riusciva a pensare a Franklin sepolto. Alla sepoltura di qualche cosa in cui una volta aveva creduto. Buttò degli indumenti in una borsa, prese Billy in braccio e guardò un'ultima volta il minuscolo alloggio malsano. Ora emanava un indefinito odore di autunno, una specie di puzza di muffa. Indietreggiò sino al ballatoio di legno. Chiuse la porta. La chiuse su Franklin. Nella stanza c'erano cattivi odori, anfetamine, mescalina e haschisch. Screpolature alle pareti e sotto il tappeto macchiato. Dietro la porta c'erano le liti, gli urli, gli odi, le accuse gelose. Era tutto lì, chiuso a chiave dietro di lei. Improvvisamente aveva la possibilità di tornare libera.
«Richard», disse, «mi accompagni a Pasadena».
Lui la guardò.
«Sicuro?».
«Sicurissima. Prenda l'auto».
Così ritornò al paesaggio ondulato di Orange Grove Boulevard. Questa volta aveva un bambino. La famiglia sedette come prima intorno al tavolo da pranzo. Come prima ci furono gli incontri domenicali. Ma lei non parlava. E loro detestavano il bambino. Volevano farlo adottare. Subito. Ma nei suoi sogni Carlotta ricordava Franklin. Aveva percorso il viale per bussare alla sua porta, così infantile eppure già col destino segnato. Voleva parlarle. Ma era morto. Da qualche parte immaginò la motocicletta, accartocciata sopra le macchie di olio al bordo della pista. Lui girava e girava, impigliato nei raggi e nella polvere, roteando e roteando. Per quasi un anno insistette con questi sogni. Poi ricordò soltanto l'alloggio puzzolente e una sorta di violenza localizzata in una stanza buia e lontana. Infine Franklin disparve completamente dalla sua memoria, lasciando uno strano vuoto, finché cessò completamente di esistere.
La terra tremò.
Carlotta, profondamente addormentata, percepì piuttosto che udire un rombo singolare, metallico. Sapeva che non si trattava di terremoto. Aprì gli occhi con cautela.
La parete sembrava risplendere. Un solitario fischio di treno echeggiò nell'oscurità. Si alzò lentamente dal divano. Uno scintillio pareva accendere la parete. Si mosse e poi scivolò verso la finestra. Il treno mugghiò potente, come un grande animale ferito.
«Bill», sussurrò Carlotta.
Non ci fu risposta.
Guardò in anticamera. Era buio. Il ragazzo era addormentato o ancora nella rimessa. Si alzò ed indietreggiò verso la parete più distante, allontanandosi dalla luce.
«Bill!».
Lo scintillio ebbe come un fremito e si allargò. Aveva raggiunto la finestra. La lampada sul tavolo era infuocata. Dietro ad essa la zona di luce era ancora a circa un metro dal pavimento.
«Buon Dio!» sussurrò lei.
La lampada esplose, facendo piombare la stanza nell'oscurità. Una trasparenza blu cominciò a formarsi librandosi sopra lo scheletro di ferro del paralume distrutto. Si compose, svanì e poi si ricompose come una palla di gelatina.
Carlotta urlò.
I due globi di luce si fusero l'uno nell'altro. Formarono una sorta di fiotto verde tra la parete e il tavolo. La stanza era illuminata in maniera fantastica. Carlotta vide le sue mani risplendere nel freddo chiarore.
Insieme i due globi svanirono lentamente. Divennero sottili. Divennero trasparenti. Poi sparirono. Era completamente buio.
La porta di Billy sbatté rumorosamente.
«Che cosa c'è, mamma?»
Carlotta si trovò stretta contro la parete, incapace di parlare. La fronte era madida di sudore gelido.
«Dove sei, mamma? Non ti vedo».
Carlotta si voltò tremante e guardò nell'anticamera. Da qualche parte c'era la forma indefinita di suo figlio.
La luce a soffitto si accese. Billy sbatteva gli occhi.
«Che cosa è successo, mamma? È accaduto di nuovo?».
«Non è successo nulla».
«Ho sentito un fracasso».
«Era la lampada».
Carlotta prese a poco a poco coscienza e vide il ragazzo allungare il braccio per raccogliere lo scheletro del paralume sul pavimento.
«Non toccare!».
Lui ammonticchiò i vari pezzi.
«Sono freddi», osservò.
Carlotta si sentì improvvisamente gelata. Rabbrividì.
«Dammi la coperta, ti dispiace?».
Gliela avvolse sulle spalle.
«Vuoi che chiami la clinica?».
«No. Ora sto bene».
Billy apparve di colpo incerto, impacciato.
«Sei sicura?».
«Sì. Sto bene. Torna a letto».
«Sei sicura?».
Il ragazzo si diresse verso la sua camera. Lasciò la porta aperta. Carlotta tentò di dormire seduta in poltrona, avvolta nella coperta, di fronte alla lampada rotta.
Sneidermann le accese una sigaretta, rimettendosi poi l'accendino in tasca. Ora sembrava più calma di appena arrivata. Era sagace. Il medico sapeva quale fosse il suo quoziente di intelligenza: 125. Gli occhi neri seguivano ogni movimento di lui, incerta su che cosa credere. Lui parlò in modo rilassante, in modo molto disinvolto. Era una tecnica per ridurre l'ansietà.
«A volte tutti possono essere presi da quello che chiamiamo panico», spiegò. «Come quando si è avuto l'incidente di auto, ad esempio. Lei mi ha raccontato che ogni cosa sembrava sospesa in aria prima che succedesse. Questo è il momento caratteristico del panico».
«Sì. Ricordo».
«Dunque, quando si è svegliata nel cuore della notte, era in preda al panico. La sua mente stava lavorando incredibilmente veloce. Ma con molta prudenza. Tutto sembrava svolgersi al rallentatore».
Carlotta aspirò profondamente. L'espressione degli occhi era quella di persona che non crede a ciò che si sta dicendo. Eppure Sneidermann capì la sete per ogni qualsiasi assicurazione.
«Si rammenta che cosa mi ha detto?» chiese. «Che c'era un rumore».
«No. Ho urlato, credo».
«Prima».
«Non ricordo».
«Ci pensi. Me lo ha detto oggi appena entrata. Un rumore mentre le luci svanivano».
«Era come di un animale. Lontano».
«No. Me lo ha descritto come di qualche cosa d'altro».
«Ho detto che era un suono solitario, come un fischio di treno».
«Esattamente».
«Oh, suvvia, dottor Sneidermann. Neppure lei ci crede».
«La considero una possibilità. Non dimentichi il suo stato d'animo».
Carlotta si strinse nelle spalle. «Va bene».
«È stata svegliata da quello strano rumore. Da un rombo sotto i piedi. La sua mente ha lavorato freneticamente. I suoi pensieri si sono mossi con la velocità del lampo».
«E allora?».
«È così che ha detto. Queste sono le parole usate oggi da lei quando è entrata».
«Okay, continui. Ascolto».
«Sono comuni i treni nella West Los Angeles?».
«No. Rari. Rarissimi».
«Vede? Ad ogni morte di vescovo. Escono dalle fabbriche, credo».
Sneidermann la guardò. Credulità ed incredulità lottavano nella sua mente.
«E poi qualche cosa brillò», concluse. «Un bizzarro rettangolo di luce contro la parete. 'Naturalmente è un rettangolo: viene dalla finestra».
«Ma cambiava forma».
«Il treno corre sui binari».
«E la luce blu?».
«La lampada era sull'orlo del tavolo. Il treno scuote la terra: la lampada cade, si frantuma, ha un lampo blu e si spegne. Ora, nel suo stato di ipersensibilità, ogni cosa viene ingigantita, rallentata. A lei è sembrato che si librasse a lungo nell'aria. Naturalmente, si è trattato soltanto di una frazione di secondo».
«È molto convincente».
«Rammenta quanto lenta è parsa la rottura del vetro dell'auto quando ha urtato il palo del telefono? In realtà è accaduto in un centesimo di secondo. Ma la sua mente lo ha fatto sembrare più lungo».
Sneidermann sorrise. «Sto inventando una storia fantascientifica?» chiese.
«No».
«Non ero con lei in quel momento. Ma quanto ipotizzo... non potrebbe essere una spiegazione possibile?».
«Suppongo di sì».
«Dunque, essere invasi da spazio esterno... Questa è una seconda spiegazione. Quale sembra più ragionevole?».
Carlotta sospirò. Era convinta. Non riteneva necessario rispondere.
«Naturalmente ora tutto ha un senso», disse. «Ora sono in condizioni di pensare chiaramente. Qui, con lei. Ma quando succede qualche cosa là, è completamente diverso».
«Capisco, Carlotta. Ma non desidera vivere in un mondo irreale».
«No, è ovvio. Ma che accadrebbe se non agissi sotto l'influenza della ragione? Capisce, che cosa sto tentando di dire? E se lanciassi qualche cosa ai bambini, per esempio? Credendoli dell'altro?».
Sneidermann annuì.
«Capisco dove vuol arrivare», replicò. «È naturale. Ma le posso assicurare che non penso che le accadrà mai una cosa del genere».
«Perché no?».
«C'è una ragione clinica. Posso spiegarla così: il suo caso non è del tipo in cui lei può scambiare una cosa così importante come i suoi figli con dell'altro».
Carlotta si raddrizzò contro lo schienale della sedia, lisciandosi la gonna. Era un gesto meccanico quando meditava intensamente. Era già abituata a perdersi nei suoi pensieri mentre Sneidermann aspettava. Era diventata esperta nelle regole delle sedute.
«Perché la mente ha il potere», chiese infine, «di farmi vedere e sentire cose che non ci sono, o ci sono soltanto in parte? Inoltre, perché sono presa da quel senso di gelo dentro di me? Ho l'impressione che qualche demone mi afferri nel palmo della mano, deridendomi».
Sneidermann rifletté che la psicosi è la peggiore malattia da vincere. È lunga, difficile e terribile fino all'ultimo. Le allucinazioni avevano indicato in tutta la loro importanza che si era di fronte ad episodi psicotici. Tuttavia, appoggiato allo schienale di una poltrona nel suo alloggio, scorse molti punti che davano speranza.
In primo luogo, aveva potuto ricostruire i precedenti clinici di Carlotta Moran. Non c'era traccia di precedenti cure per disturbi mentali. Non è impossibile che la schizofrenia scoppi improvvisamente all'età di trentadue anni. Ma le probabilità sono minime. Di norma se ne avvertono i primi sintomi intorno ai venti.
Lo studio analitico delle ultime sedute dava speranza. La distorsione percettiva delle luci del treno derivava da una forte situazione emotiva. E questo è più caratteristico dell'isterismo che della psicosi.
È vero che Carlotta nutriva una sensazione di irrealtà riguardo se stessa e l'estraniarsi dalla realtà è un sintomo specifico della psicosi. Tuttavia si calmava e sembrava rispondere alle domande con pieno senso di responsabilità. Non si era forse genuinamente interessata dei figli alla fine della seduta? Ciò significava che il senso di irrealtà era da attribuirsi agli attacchi e non ad una dissociazione permanente.
Più Sneidermann sfogliava i testi accatastati sulla scrivania, più controllava le proprie note, più esplorava in cerca di una configurazione più caratteristica, migliore gli appariva la situazione. Non si era forse persino lamentata delle sensazioni che provava in lei durante gli attacchi? Anche questo era un sintomo di isterismo, non di psicosi.
La porta si aprì e Jim si fece avanti. Il compagno di alloggio di Sneidermann sorrise amichevolmente, poi si mise a riempire una borsa.
Lo stette a guardare. Essendo l'unico ebreo in uno stabile di maschi altamente competitivi, la maggior parte dei quali erano chirurghi, medici generici o dentisti, si manteneva educato, amichevole, ma riservato. A parte gli interni al primo anno di contratto, soltanto pochi erano invitati ad unirsi ai primari, un traguardo a cui aspirava. Così Sneidermann si asteneva dalle occasioni sociali offerte dalla Southern California e si dedicava completamente a percorrere la sua strada fino alla vetta. La vita libera e facile al sole rimaneva per lui nulla più che una piacevole vista dalla finestra.
«Jim, non sei in nota per il turno del pomeriggio per il prossimo semestre?».
«Fra tre settimane. Perché?».
«Facciamo un affare?».
«Sei pazzo? Senz'altro. Qual è la ragione?».
«Nessuna. Mi piacciono i malati di quel turno».
«Sei tu che lo vuoi. D'accordo».
«Ti sono grato».
Jim lo salutò con un largo sorriso ed uscì. Nell'atrio c'erano delle ragazze con racchette da tennis e che ridevano con gli amici. Sneidermann chiuse adagio la porta.
Più pensava a Carlotta Moran, più l'interessava. Non poteva togliersela dalla mente. Sedette. Poi, irrequieto, si alzò e passeggiò per la camera.
Paure, sì. Ma non fobie. Le paure di lei erano qualche cosa di molto specifico. Ossessione, costrizione? Per niente. Sneidermann sfogliava e prendeva appunti. Neppure era depressa. Ansia? Certamente. Scrisse le parole "nevrosi isterica" in calce alla pagina di appunti. Fece una pausa, studiandoli attentamente.
Nevrosi, perché era inconsciamente controllata, e lei lo odiava. Isterismo, perché i segni ed i sintomi iniziavano e terminavano in periodi di emozioni con punte di sessualità. Poi si calmava. Una volta tranquilla, i suoi processi mentali sembravano normali. Sneidermann si sfregò gli occhi. I pensieri galoppavano quasi da soli.
In qualche maniera, lei era come certi edifici che si trovano nelle zone povere di Los Angeles. Per qualche cosa di sbagliato nella costruzione rimangono dieci o venti anni senza problemi. Poi comincia il tremore. Gli altri edifici sono sani. Quello invece crolla in una nuvola di polvere, mostrando travi maestre spoglie di ciò che era stata una ordinata struttura.
Di che cosa si trattava? E perché ora?
Cercò di concentrarsi su altri casi. Cercò di scrivere una lettera a casa. Non ci riuscì. Infine gettò le scarpe da ginnastica ed una camiciola in una borsa, si recò in palestra e per un'ora lanciò violentemente una palla contro la parete.
11 novembre 1976, ore 20,16
Una soffice oscurità scese sul quartiere della Kentner Street. Lo ingoiava tutto come una nebbia nera, durante il giorno e durante la notte. Sembrava che nulla potesse forarla. Lo tagliava fuori dalla realtà. Chiunque se ne restasse al di fuori: il postino o un bambino sullo skateboard, appariva lontano, staccato dalla cantina in cui erano immersi, irrimediabilmente distanti ed illusori.
Sia che la televisione fosse accesa, sia che Billy fosse in casa, qualunque cosa Carlotta facesse, non faceva differenza. Non erano più soli in casa.
La sera dell'11 novembre, lei sedeva sul divano, cucendo pezze su camicie e pantaloni. Le bambine erano sedute sul pavimento, colorando qualche cosa. Billy rovistava in un cesto di calze pulite, in cerca di un paio per lui.
«Accidenti», esclamò Carlotta.
Billy la guardò.
«Guarda lassù», sussurrò lei.
Billy si voltò. Nel soffitto si era formata una screpolatura. Dell'intonaco cadeva in polvere leggera sul tappeto.
Tutti guardarono attoniti. Infatti la fessura stava allungandosi a vista d'occhio. Si allungava come un serpente: poi si interruppe. Il soffitto era trasformato in una ragnatela nera, imperfetta e l'intonaco filtrava come farina dalla ferita.
«Gesù», sussurrò Billy fra i denti.
Carlotta infine abbassò lo sguardo. La casa appariva fragile. La notte appariva potente e misteriosa.
«Che cosa significa, Bill?» mormorò lei.
«Niente, non sono altro che screpolature. Righe».
«Dio, sembra così...».
Il pensiero vorticava incerto nel cervello. Le bambine vennero colte da un brivido di paura.
«Mamma», sussurrò Julie, «c'è qualcuno alla finestra».
Carlotta si voltò di colpo.
«Dove?».
La notte più nera rifletteva la sua immagine, con la mano sulla gola, pronta a fuggire.
«Non so», rispose Julie, incerta.
«Che cosa intendi con non so?», sibilò Carlotta. Aguzzò gli occhi sulle due finestre.
«Ho...».
Billy andò alla finestra. Si sporse in avanti, facendo scudo agli occhi contro il riflesso. Improvvisamente urlò e spalancò i vetri, agitando le braccia. Silenzio assoluto. Si sporse attento. Si sentiva soltanto il frinire dei grilli.
«Ha preso paura», disse, girando intorno a Julie. «Senti», la rimproverò il ragazzo. «Non stiamo giocando. Hai capito? La mamma non vuol sentire parlare di cose che non siano vere, d'accordo? È troppo importante adesso».
«Non stavo giocando», replicò la bimba.
Carlotta rabbrividì. Si diresse verso il termostato.
«Senti, Julie», disse Billy con dolcezza. «Hai visto davvero qualche cosa? Giocavi, o no? Non fingevi?».
«Non... non... so...
«Billy», chiamò Carlotta.
Il termometro sembrava impazzito: la lancetta si muoveva avanti e indietro. Billy stava in piedi dietro di lei, guardandola da sopra le spalle. Allungò una mano.
«Non farlo!» ammonì la madre.
Lui si bloccò.
«Non so», disse. «Non sono pratico di termometri. Non è il bollitore. Quello funziona bene. Forse il nastro metallico all'interno si è guastato o è marcito...».
«Il metallo non marcisce...».
«Si corrode. Hai capito che cosa intendo. Quello che farebbe una piccola striscia».
«Che cosa intendi per "farebbe"?».
«Come succede al filo di ferro con cui si legano i covoni di fieno quando si rompe. È questo che voglio dire».
«Ebbene», fece notare Carlotta, «ora è fermo. Vedi?».
La lancetta si stabilizzò sui 19 gradi, si abbassò lentamente, poi tornò indietro.
«Credo che ora funzioni. Così è normale, no? Diciannove».
«Chiudi le finestre Bill», disse la madre, voltandosi.
«Bene. Vedi. È stata una corrente fredda».
Chiuse i vetri e Carlotta sedette in poltrona, mordendosi il labbro.
«Ed ora abbassa gli avvolgibili, per favore. Completamente».
C'era silenzio. Le orecchie parevano colpite da un senso di vuoto.
«Riparerò il soffitto», disse lui. «Domani. Posso procurarmi dello stucco nel pomeriggio».
«Bene».
Ma Carlotta sembrava essersi allontanata da loro. Il volto era teso e il cuore le martellava.
«Julie», disse Billy. «Giochiamo a cuori».
Presero un mazzo di carte e le distribuirono.
«Sai come si gioca? Devi liberarti dei tuoi cuori».
Carlotta li osservava ed udiva le loro voci provenire come da migliaia di chilometri di distanza.
«La regina di picche è la strega», spiegò il fratello. «Liberatene».
«Oh, Dio mio», mormorò Carlotta.
«Va bene. Hai il due di fiori. Buttalo».
«Dio mio, Dio mio».
Carlotta si sprofondò nella poltrona. Il volto fu ingoiato dall'ombra. Li udiva a malapena giocare. Aspettava.
7
Un pesce iridescente, lungo, rosso, nuotava come un'anguilla fra le alghe verdi. L'oceano era vasto, trasparente e caldo. Tutto di colpo il pesce si allungò e s'infilò in un vallone di coralline rocce blu, irradiando bagliori contro il fondo sabbioso. Era in cerca di qualche cosa... Sulle bocche degli anfratti si scorgevano pietre lucenti, perle iridescenti nell'acqua blu...
Il telefono squillò.
Carlotta si drizzò come un fuso, tenendosi la testa. La luce del sole si riversava dalle finestre. Billy sedeva in poltrona, mangiando fiocchi di granturco e seguendo delle corse automobilistiche in televisione.
«Che cos'era...».
Il telefono squillò di nuovo.
«Stavo sognando», mormorò, scuotendo il capo.
Si alzò dal divano. Cercò di rammentare il sogno. Dove andava il pesce? Perché era tutto così bello? Il telefono suonò una terza volta. Il sogno svanì.
«Jerry!».
Premette il ricevitore all'orecchio più che poté.
«Dove sei? A Saint Louis? Ma dovresti essere a Seattle. Che cosa?... Fine della verifica annuale? Bene, non cacciare nessuno in galera...».
Stava attorcigliandosi il cordone intorno alle dita. A Billy sembrava una scolara eccitata per un appuntamento. La vista lo disgustava in maniera vaga, indefinibile. Distolse lo sguardo.
«Oh, Jerry!» disse lei, sorridendo, ma con la voce tesa. «È questa la prossima settimana! La diciannovesima!... che cosa?... Capisco... Naturalmente... Ti verrò a prendere all'aeroporto».
Era completamente sveglia. Eccitata, ma ciononostante avvertiva dell'ansietà. Sentiva che la sua riserva di forza poteva resistere al massimo per qualche giorno. Stordita, indicò la televisione con un gesto perché Billy abbassasse il volume. Tuttavia lo strepito della folla e delle auto rimaneva alto.
«Oh, è così bello sentire la tua voce!... Che cosa? Oh, sì. Anch'io!... Non posso parlare... Non sono sola».
Rise. Billy spense l'apparecchio e lasciò la stanza.
«Julie vuole salutarti», disse.
Questa prese il ricevitore con ambedue le mani. Gli occhi le luccicavano per l'emozione.
«Che cosa?» sussurrò Julie. «Non ti sento!... Stiamo giocando a carte... con Kim?... Sì... Sento la tua mancanza!... Adesso arriva un bacio. Pronto?».
Soffiò un bacio nel ricevitore. Ascoltò intentamente.
«Vuole parlare a Kim», annunciò la bimba.
Carlotta appoggiò il ricevitore all'orecchio di Kim.
«Di' 'ciao Jerry'», suggerì la madre.
«Ciao, Jerry».
La risata di lui arrivò attraverso il telefono.
«Di' 'come stai?'», continuò Carlotta.
«Come stai?» ripeté Kim con voce tremante.
Carlotta riprese il ricevitore.
«Sicuro?» disse. «È qui. Aspetta un momento».
Si voltò. Billy non c'era. Coprì il ricevitore con la mano.
«Bill!».
«È andato nel garage», spiegò Julie.
Il volto di Carlotta si rabbuiò. Liberò il ricevitore e sorrise di nuovo.
«Credo che sia andato, Jerry. Cosa? No. Non sbaglio. Non era neppure in casa... Oh, sì... Anche a me manchi... Oh, lo faccio, lo faccio... Oh, Jerry... Ti prego stai attento. Ti aspetto... Oh, no... Detesto salutare... Alla prossima settimana». La voce le si abbassò fino a un sussurro. «Ti amo... Ciao!».
Tenne la cornetta in mano, poi la posò lentamente. Sospirò.
«Amore», ridacchiò Julie.
«Già», rise Carlotta.
La mente ripassava i particolari. Acquistare una camicetta nuova. Una gonna. Qualche cosa di ricamato. Ma dove avrebbe trovati i soldi? Soltanto una camicetta, allora. Qualche cosa di allegro. Immaginò Jerry scendere dall'aereo, salutarla in quella sua maniera infantile, venire verso di lei, prenderla fra le braccia. Sarebbero andati da qualche parte. Altre immagini con Jerry le vennero in mente... Sorrise.
Carlotta accavallò le gambe. Quel giorno era straordinariamente carina. L'abbronzatura le aveva dorato la fronte, le guance, le braccia e le gambe e gli occhi scuri sembravano più fondi che mai. Guardò francamente Sneidermann.
«Benissimo, dottore», disse. «Ha avuto i risultati degli esami? Che cosa c'è?».
Il medico fece ruotare la sedia. Era un gesto che imitava quello del primario. Invece di mettere Sneidermann a suo agio, lo imbarazzava. Picchiò sulle cartelle posate sulla scrivania ed aprì la prima.
«Non ho tutte le risposte, Carlotta. Ma, per intanto, sappiamo che non c'è nulla in lei che non vada, tanto clinicamente che fisiologicamente. E per quanto siamo in grado di dire, il suo intelletto sembra funzionare bene, anzi, meglio del normale».
«Allora?».
«Questo lascia solo un'ipotesi».
«Ossia?».
«Un fatto psicologico. Un fatto emotivo. Gli esami e quanto mi ha detto cominciano ad avere una loro logica».
Carlotta sorrise. Sneidermann notò che doveva essere accaduto qualche cosa. Trapelava una vitalità interiore. Il modo di comportarsi irradiava fiducia. Per la prima volta, rivelò un senso dell'umorismo verso se stessa. Il medico si domandò quale fosse la causa della determinazione e dell'ottimismo che pareva aver ritrovato.
«Le dispiace, dottore, se le dico che tutto questo ora mi suona estremamente remoto?».
Lui ridacchiò suo malgrado.
«Naturalmente no. Certi momenti delle nostre esistenze non si dimenticano. Continuano a rimanere latenti. Per determinate ragioni, essi ritornano. E ritornando causano delusioni, ansietà, persino allucinazioni».
«È così semplice?».
«Per niente. È come se noi, cioè quella parte di noi che vive la vita di tutti i giorni, fosse piena di buchi. La parte cosciente non ha problemi. Ordina hamburgers, legge il giornale, rimprovera i bambini. Ma qualche esperienza precedente, qualche trauma, in certi momenti si insinua attraverso uno di questi varchi ed ha il sopravvento. Per qualche ragione. Per ragioni che ancora non conosciamo».
Carlotta sorrise. Ma le mani le si torsero nervosamente in grembo.
«Che cosa farà?» chiese. «Mi sottoporrà ad un trattamento di elettroshock?».
Un improvviso senso di pietà colpì Sneidermann.
«No, no, Carlotta. Nulla del genere. Senta... diciamo così. Metteremo una pezza sulla camera d'aria. Ma è la sua mente cosciente che deve scoprire dove è il foro».
Gli occhi di Carlotta erano umidi. L'idea di essere malata stava prendendo forza in lei e la riempiva di vergogna. Il medico capì che non vi era nulla che potesse dire per scacciare una simile impressione. Si alzò e la scortò sino alla porta.
«Buonasera, Carlotta. La vedrò domani. Domani inizieremo».
«Buonasera, dottor Sneidermann».
Sorrise leggermente, ma uscì in fretta e sparì prima che egli potesse aggiungere un'altra parola.
Sneidermann trascorse l'ora seguente ad aggiornare gli appunti. Era vicina l'ora di cena, ma non aveva appetito. Una discussione di gruppo su cinque casi, uno dei quali era un ragazzo di sette anni, era in corso nel salone. Sneidermann decise di dare un'occhiata, almeno per un momento.
Lasciato lo studio, passò dall'atrio principale per prendere un caffè e un dolce dalla distributrice automatica. Aprendo la porta che dava sull'ingresso, vide Carlotta sul portone già scuro per la sera incipiente. Sembrava timorosa di uscire.
Sneidermann, sorpreso, chiese: «Va tutto bene?».
Carlotta si voltò, allarmata. «Oh, sì, naturalmente. Ma non so dove sia la mia amica. È sempre puntuale, a meno che non abbia avuto qualche fastidio...».
Il medico rifletté un attimo. Era di servizio per tutta la sera. Diversamente, avrebbe potuto accompagnarla a casa.
«Vuole telefonare?».
«Sì, grazie».
Carlotta tornò dentro. Fece il numero di Cindy ed attese, ma non ebbe nessuna risposta. Allora riappese. Guardò Sneidermann perplessa.
Il giovane rifletté. Poteva suggerire un tassi, ma nessuno dei due poteva permetterselo. Controllò l'ora.
«Vive a West Los Angeles...?».
«Alla fine, vicino alla superstrada».
Sneidermann si chinò sulla scrivania.
«Informi Boltinche che starò assente per mezz'ora», disse all'infermiera. «Gliene restituirò una intera».
Attraversò in fretta l'ingresso insieme a Carlotta e tenne aperta la porta per lei.
«Sono terribilmente spiacente».
Con un cenno della mano Sneidermann interruppe le scuse.
Carlotta si sistemò sul sedile in disordine della minuscola MG... Sneidermann salì, sbattendo la portiera e girò la chiave dell'avviamento. L'auto uscì ruggendo dal parcheggio, destreggiandosi fra le macchine in sosta.
«Questo è il momento della verità per i miei pazienti, ho subito la prova se hanno fiducia in me», disse, sorridendo. «Guido veloce».
Carlotta rimase zitta. Lui avvertì un leggero imbarazzo per il tentativo di conversazione brillante. Si diressero in silenzio verso la West Los Angeles, con la MG che si insinuava nel traffico con la leggerezza di una danzatrice classica. Una colonna li imbottigliò vicino a Wilshire Boulevard, dove i grattacieli nascevano come funghi, come se la città non riuscisse a seguire abbastanza rapidamente le urgenze dei suoi abitanti.
«È nata a Los Angeles?» chiese Sneidermann.
«Prego?».
«Ho chiesto se è originaria di Los Angeles».
«Vicino. Pasadena».
«Lo sa», continuò lui, frugando in cerca delle sigarette e non trovandone nessuna, «lei è la prima persona incontrata che possa dire questo. La città è piena di gente e tutti provengono da qualche altra parte».
Carlotta trasse un pacchetto di sigarette dalla borsa e gliene offrì una. Con la capotta abbassata, la brezza scompigliava i capelli. Sneidermann scoccò uno sguardo a Carlotta. Era molto carina, semisdraiata sul sedile dell'auto.
«Per un certo tempo ho vissuto nel Nevada», disse lei.
«Las Vegas?».
«No. Nel deserto».
«Davvero? Che cosa ci faceva laggiù?».
«Vivevo».
Carlotta aspirò profondamente la sigaretta mentre si rilassava appoggiandosi allo schienale, col capo che riposava sul cuscinetto.
Los Angeles sfrecciava di fianco a loro. Sneidermann imboccò la curva sbagliata cercando di tagliare attraverso le fabbriche. Imprecò sottovoce, poi riuscì ad infilare la strada giusta verso Colorado Avenue.
«Pasadena, eh?» continuò. «Si dice vi sia una comunità ricca».
«Una parte. Una parte è veramente opulenta».
«E la parte dalla quale viene lei?».
«Molto ricca».
Carlotta parlava a bassa voce. Era più rilassata fuori dello studio. Il medico improvvisamente si rese conto che c'era in lei un atteggiamento interamente nuovo, qualche cosa che non era mai emerso nell'ambiente artificiale della clinica. Là appariva la vera Carlotta o soltanto quella formale? Una Carlotta condizionata dai rumori estranei e dall'ambiente ospedaliero.
«Vorrei porle una domanda», disse Sneidermann. «Solo per curiosità».
«La prego».
«Lei è aiutata dall'assistenza sociale», proseguì in tono educato. «È quanto ha dichiarato sul modulo».
«Esatto».
«Come mai?».
Carlotta lo guardò stranamente.
«Sono rimasta senza denaro».
Sneidermann ridacchiò, un tantino imbarazzato.
«Voglio dire... i suoi genitori. Non può rivolgersi a loro?».